Il Codice del Terzo Settore fa un passo in avanti ma resta ancorato al TUIR
Era luglio 2017 quando veniva approvato il Codice del Terzo Settore (CTS), che avrebbe dovuto mettere ordine nella frastagliata disciplina civilistica degli enti non profit e, sul piano fiscale, “operare una semplificazione ed armonizzazione, nel rispetto della normativa Europea” del quadro legislativo “che appare in più parti frammentato e con disposizioni che si sono stratificate nel tempo creando un sistema fiscale non omogeneo”. Questo l’intento generale del legislatore.
L’entrata in vigore del regime fiscale ammodernato è stata subordinata a due condizioni: l’operatività del RUNTS (il registro unico nazionale del terzo settore) e, proprio “nel rispetto della normativa Europea”, l’ottenimento dell’autorizzazione della Commissione Europea, tenuto conto che le disposizioni introdotte, per certi versi di natura agevolativa, potrebbero scontrarsi con i limiti degli aiuti di Stato.
Il 23 novembre 2021 è finalmente divenuto operativo il RUNTS. Ma la richiesta di autorizzazione europea è ancora in corso. Il regime fiscale del CTS, ai fini delle imposte sui redditi, è insomma ancora in stand by.
Così mentre è certo il regime che si applica e si applicherà agli enti non profit che restano fuori dal RUNTS, non si può dire con altrettanta certezza quale sarà il destino fiscale degli enti del terzo settore (ETS).
Ad oggi per gli enti non profit in genere, inclusi gli ETS, vale il regime fiscale ordinario del testo unico delle imposte sui redditi (TUIR).
Uno dei punti dolenti di questo regime è sicuramente la qualificazione dell’ente non profit come commerciale o non commerciale. Si tratta di una distinzione inevitabile e determinante, perché da essa dipende il calcolo dell’imponibile di un ente. Ed invero, mentre per gli enti commerciali tutti i redditi prodotti costituiscono redditi d’impresa, per gli enti non commerciali vige un sistema di calcolo dell’imponibile atomistico (come per le persone fisiche). Il loro reddito è dato cioè dalla somma delle diverse categorie (e quindi redditi fondiari, redditi d’impresa, redditi di capitale, redditi diversi, ed esclusi, per ovvi motivi, i redditi da lavoro autonomo e lavoro dipendente).
Si noti che, peraltro, questa ripartizione non è stata toccata dal CTS che anzi, consapevole della sua centralità nel sistema tributario, si è solo limitato a declinare diversamente la nozione di ente non commerciale, tenendo conto delle caratteristiche proprie degli ETS.
Partendo dal TUIR, un ente non commerciale è un ente che non ha per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di un’attività commerciale.
Per oggetto (individuato in base alla legge, atto costitutivo o statuto o, in loro mancanza, in base all’attività effettivamente esercitata) si intende l’attività che l’ente è preordinato a svolgere. Ed è “principale” quell’attività o insieme di attività che è essenziale per realizzare direttamente gli scopi primari dell’ente.
Mentre, per attività commerciale si intende l’esercizio per professione abituale ancorché non esclusivo delle attività indicate nell’art. 2195 c.c., anche se non organizzate in forma di impresa (oltre che di alcune altre attività nei limiti e alle condizioni indicate dal TUIR, qui per semplicità tralasciate).
Entrambe le nozioni presentano delle criticità.
La prima è legata alla corretta individuazione dell’oggetto principale, e quindi al rapporto attività/fine, soprattutto in quegli enti impegnati nello svolgimento di molteplici attività.
La seconda è legata alla nozione di commercialità, dietro la quale si cela, in forza dei rimandi al codice civile, la nozione di economicità, intesa come attitudine alla produzione di ricchezza e quindi, semplificando, come attitudine dell’attività a raggiungere almeno un pareggio tra entrate ed uscite. Lo studio dell’economicità richiede di operare una precisa distinzione tra le entrate (corrispettive o contributive) dell’ente, ma anche tra i costi (specifici o promiscui) e di collegare ciascuna di queste voci ad una o più delle attività svolte dall’ente. Operazione non così semplice nella pratica.
Si aggiunga che queste stesse difficoltà si ripresentano anche in un secondo momento e cioè quando, qualificato un ente come non commerciale, si deve andare a verificare nell’ambito delle sue attività secondarie, quali di queste sono attività commerciali e in che termini si rapportano rispetto allo scopo dell’ente. E ciò perché vi sono delle specifiche norme che, al ricorrere di determinate caratteristiche, decommercializzano talune attività o le agevolano, così riducendo l’imposizione sull’ente non profit.
Questi problemi solo in parte potranno dirsi superati con l’adozione (se e quando ci sarà l’approvazione europea) del CTS. Secondo quest’ultimo, infatti, non sarebbero commerciali le attività di interesse generale svolte a titolo gratuito o dietro versamento di corrispettivi che non superano i costi effettivi, ma con una soglia di tolleranza dello scarto tra corrispettivi/costi del 5% per periodo di imposta e per non più di due periodi.
Le problematiche qui brevemente evidenziate sono quelle che toccano in genere tutti gli enti, ma negli anni sono stati affrontati diversi temi, legati anche alle singole tipologie di enti non profit presenti nel nostro ordinamento, che hanno complicato il quadro fiscale di questi soggetti. Vedremo se, con la futura (presunta) entrata in vigore del CTS in tutte le sue parti, il legislatore potrà dire di avere effettivamente raggiunto l’ambizioso obiettivo di riforma fiscale che si era prefissato nel 2017.
Avv. Marida Anselmo, membro della Commissione di Diritto Tributario di AGAM.