Le modalità processuali di recupero del credito professionale dell’avvocato, alla luce della recente pronuncia della Suprema Corte (SS.UU. n. 19427/2021 del 25.05-8.07.2021)
Viene qui di seguito trattata la questione relativa alle modalità operative -di carattere procedurale- di recupero dei compensi di avvocato, nell’esercizio della propria attività professionale.
La Suprema Corte -a Sezione Unite, con la sentenza n. 19427/2021 del 25.05-8.07.2021 -su richiesta del Procuratore Generale, ai sensi dell’art. 363, comma 1, c.p.c., ha provveduto ad enunciare il seguente principio di diritto.
Segnatamente:
Fermo il superiore dogma, la questione in esame scaturisce dalla segnalazione ricevuta dalla Procura generale della Corte di Cassazione “con cui si informava l’ufficio […] dell’esistenza di un orientamento del Tribunale di Roma in virtù del quale, in quell’ufficio, i ricorsi per decreto ingiuntivo, presentati a partire dall’anno 2012 per la liquidazione dei compensi di avvocato in materia giudiziale e stragiudiziale civile, erano rigettati, nonostante fossero corredati da prova documentale dell’attività svolta e dal parere di congruità reso dal competente consiglio dell’ordine” (cfr. pag. 2, sentenza).
A sostegno di tale orientamento, il Tribunale capitolino assumeva che:
=) l’art. 633 c.p.c. prevede l’emissione di un provvedimento monitorio nel momento in cui il credito azionato oltre ad essere certo ed esigibile, è anche liquido;
=) l’art. 636 c.p.c., nel suo riferimento alla “parcella delle spese e prestazioni […] corredata dal parere della competente associazione professionale”, ricondurrebbe al sistema delle tariffe professionali, abrogate con il D.L. n. 1/2021, convertito dalla L. n. 27/2012;
=) l’art. 9, comma 5, della suddetta L. n. 27/2012, secondo cui “sono abrogate le disposizioni vigenti che, per la determinazione del compenso del professionista, rinviano alle tariffe di cui al comma 1” avrebbe determinato l’abrogazione dell’art. 636 c.p.c.;
=) il predetto effetto abrogativo non sarebbe impedito dalla riforma dell’ordinamento della professione forense (L. n. 247/2012) che, all’art. 13, comma 9, contempla il parere di congruità del Consiglio dell’Ordine professionale, non comportando tale disposizione la reviviscenza del sistema tariffario, a motivo della incompatibilità di questo sistema rispetto al principio della libera contrattazione del compenso, al momento del conferimento dell’incarico al professionista legale;
=) il principio della libera contrattazione in uno con l’obbligo del preventivo dei compensi e costi -come infatti sarebbe indicato dall’art. 1, comma 141, della L. 124/2017- imporrebbe che il decreto ingiuntivo possa essere richiesto esclusivamente se corredato da tale documento; in difetto, l’avvocato avrebbe esclusivamente la possibilità di richiedere la liquidazione dei propri compensi, per il tramite del procedimento di cui all’art. 28 della L. 794/1942, come modificato dal D.Lgs. n. 150/2011;
=) che, pertanto, a dire del Tribunale di Roma sarebbe preclusa “al professionista la possibilità di agire con il procedimento monitorio puro, ossia di ottenere un decreto ingiuntivo in assenza di puntuale prova scritta di ciascuna delle prestazioni e delle spese ovvero dell’accordo scritto sul compenso” (cfr. pag. 4, sentenza).
Al contrario, la Procura Generale, ha affermato l’ammissibilità dello strumento monitorio in capo al professionista legale, finalizzato al recupero del proprio compenso, in forza di un parere di congruita del proprio Ordine di appartenenza. Infatti, dopo avere ricostruito il quadro normativo, ha –inter alia– rilevato che (i) nell’ipotesi in cui il compenso dell’avvocato non sia predeterminato con il cliente, stante l’assenza di un preventivo, “il consiglio dell’ordine rilascia, su richiesta dell’interessato, un parere di congruità (art. 13, comma 9, L. n. 247/2012”): normativa quest’ultima che “non ha comportato l’eliminazione della possibilità di avvalersi del parere del consiglio dell’ordine al fine di ottenere un decreto ingiuntivo” (cfr. pag. 5, sentenza); (ii) l’abrogazione delle tariffe non avrebbe comportato la eliminazione di tutte le norme che -in via diretta e/o indiretta- richiamano il sistema tariffario, determinando esclusivamente la sostituzione di un criterio per la determinazione dei compensi (quello appunto tariffario), con altro fondato su parametri di cui -nel caso di specie- al D.M. n. 55/2014.
Alla luce di quanto sopra, la Suprema Corte con la pronuncia in commento e sgombrando il campo da ulteriori profili di dubbio, ha confermato pertanto la possibilità dell’avvocato -nell’alveo del recupero del proprio compenso- di agire –nell’ipotesi di conferimento di incarico e preventivo scritto ricevuto da parte del cliente– sia in via monitoria, sia per il tramite dello strumento processuale di cui all’art. 28 della L. n. 794/1942, come sostituito dall’art. 14 del D.Lgs. n. 150/2011; al contrario -ovvero in assenza di un formale documento scritto di preventivo di compensi e spese, sottoscritto dal cliente– la possibilità per lo stesso professionista legale di agire in via monitoria, previo ottenimento del parere di conformità da parte del proprio Ordine di aderenza, rilasciato sulla base dei parametri di cui alla L. 247/2012 e relativi decreti ministeriali attuativi.
A tale conclusione, il Supremo Collegio -vieppiù a Sezioni Unite- è giunto dopo avere analiticamente analizzato il previgente sistema tariffario, quello attuale, la L. n. 247/2012, nonché gli artt.li 633 e ss. c.p.c. di riferimento, affermando altresì che “in definitiva, la tesi secondo cui lo smantellamento del sistema tariffario ha comportato l’abrogazione tout court delle norme che lo richiamano, e in particolare delle norme del codice di rito, non è sorretta da alcun indice normativo e neppure da validi criteri ermeneutici” (cfr. pag. 23, sentenza).